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venerdì 10 aprile 2009

RECENSIONE di GRAN TORINO di Clint Eastwood

Il vecchio Clint non molla: si ripropone in chiave di scorbutico dal cuore d’oro allibito di fronte all’odio che domina il mondo. Come l’ultimo film che lo vedeva anche attore, Million Dollar Baby, il suo personaggio all’apparenza intollerante (prima nei confronti delle donne pugili, ora razzista) si scopre protettivo e disposto a lottare per aiutare chi è oppresso, o semplicemente chi se lo merita. Non meritano infatti la sua fiducia i nipoti viziati e irrispettosi: ha più cose in comune con i vicini asiatici, rispettosi della famiglia e desiderosi di inserirsi.
Questo film circolare che si apre e conclude con un funerale, ha al suo interno una storia di incredibile umanità, in cui si mischiano temi come il razzismo, la paternità, l’amicizia, il senso di colpa, la guerra: potrebbe parere troppo ma non lo è. Eastwood miscela tutto con grande classe, meno classico del solito, ma comunque imponente, regalandoci una piacevolissima autoironia autocelebrativa. Infatti il film è un tributo che Eastwood regala a se stesso e al cinema, concludendo la carriera d’attore nel modo più ovvio, cioè in una bara. Questo è Eastwood il regista, l’attore e anche il personaggio: essenziale, senza mezzi termini. La società fa schifo? Lo dice schiettamente in tutto il film, con un pessimismo e un cinismo crudele, salvo poi inventarsi un epilogo sacrificale che diventa utopico nel suo significato salvifico e purificatore. Così l'uomo dal volto di pietra che Eastwood ha sempre incarnato giace a terra, morto con le braccia spalancate, come un Cristo immolato per le ingiustizie del mondo. Non a caso siamo a Pasqua.

VOTO: 8,5

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