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mercoledì 29 dicembre 2010

the worst of 2010

Un critico cinematografico di cui non riporto il nome ma semplicemente il quotidiano per cui scrive, ovvero Il Giornale, ha stilato la classifica del meglio e del peggio di quest'ultima stagione cinematografica. Classifica abbastanza stupida a mio avviso, dato che o si ragiona per annate o per stagioni (da settembre a luglio insomma). Comunque, per lui il film migliore uscito in Italia da settembre a oggi é Potiche di Ozon. Tra i peggiori, al numero 3 mette Inception di Nolan.
Io da fan di Ozon, ho trovato Potiche un'autentica delusione, mentre per quanto riguarda Inception devo dire che non mi ha fatto impazzire perchè non amo quel genere di film, ma ammetto che è un film grandioso. Ma chi sono io per criticare chi critica per mestiere? Io sono solo un piccolo blogger che esprime sentenze gratuitamente..

Dunque, da oggi comincia il countdown per scoprire quello che secondo il mio modestissimo parere è il meglio e il peggio di questo 2010 visto al cinema.


Si comincia dal peggio...

5. eclypse : me la sono proprio cercata!
4. Io, loro e Lara: mortacci!

3. Mangia, prega ama: e dormi!

2. Iron man 2 : cercavo l'ispirazione per scrivere una stroncatura

1. Maschi contro femmine - cercavo un modo per arrabbiarmi col cinema italiano e sono finito per arrabbiarmi con l'intero sistema..

A essere sinceri le posizioni 5, 4 e 3 sono film molto maldestri, ma non bruttissimi. In generale mi tengo alla larga da quello che è davvero brutto. Le altre due invece mi hanno fatto proprio arrabbiare: sono i classici film che secondo me sarebbe stato meglio non girare.

Un bel film sulla parità dei diritti

WE WANT SEX
(MADE IN DANGENHAM)
di Nigel Cole, 2010, Uk

Le principale interpreti del film, fra cui la protagonista Sally Hawkins e Andrea Riseborough (che regge lo striscione), protagonista del nuovo film di Madonna.

L’ultimo film visto quest’anno si è rivelato assai piacevole: We want sex è infatti una bella commedia British socio-politica. Distribuita da Lucky Red che dopo il Mago della truffa partorisce un altro titolo scellerato e ingannevole: We want sex è lo storpiamento di We want sex equality, scritta che campeggia su un manifesto che le protagoniste mostrano durante uno sciopero. Da notare anche le due locandine a confronto: quella italiana è occupata da una Sex scritto a caratteri cubitali. Insomma, se il dramma carcerario-gay è stato presentato come una solita commedia alla Jim Carrey, a questa commedia di impegno sociale è stato dato il titolo di un film pruriginoso.   Il titolo originale era Made in Dagenham, dove Dagenham è la località sede della più grande fabbrica inglese della Ford, che nel 1968 contava quasi 55.000 operai e 187 operaie. Queste ultime, sfruttate e costrette a ricevere salari che corrispondono alla metà di quelli degli uomini, di fronte all’ennesimo affronto decidono di scioperare per la prima volta nella storia. Lo sciopero continua a oltranza, perché una di loro si mette in testa che le donne devono essere pagate come gli uomini. La protagonista della vicenda è Sally Hawkins che porta ammirevolmente sullo schermo un personaggio inventato con cui lo spettatore può entrare in empatia. Lo storico sciopero del '68 portò le eroine della fabbrica a un incontro con il Ministro del Lavoro Barbara Castle (interpretata da Miranda Richardson) che diede come frutto un decreto legge che stabiliva la parità salariale delle donne. In realtà la protesta non ebbe una vera e propria leader ma fu un movimento ancora più compatto. Il regista ha preferito però per non fare un film corale e dare risalto al personaggio della Hawkins, simbolo di donna forte e indipendente che non ha avuto i mezzi per studiare ma ambisce al diritto di lavorare e guadagnare come un uomo. A farle da contraltare il personaggio rappresentato da una sempre più radiosa Rosamunde Pike, donna istruita ma costretta a far da obbediente casalinga dal ricco marito.

Il regista Nigel Cole, reduce da diversi successi (L’erba di Grace, Calendar Girls), costruisce un’altra storia al femminile in cui commedia e impegno sociale si mischiano alla perfezione.

VOTO: 7+



martedì 28 dicembre 2010

La cultura non dà da mangiare

Quello che si sta per concludere è stato probabilmente l’anno più devastante per la nostra cultura, il che è molto triste per una nazione che ha basato la sua gloria su pittori, architetti, scultori, musicisti, chef e in decenni più recenti si è contraddistinta pure nella moda, nelle automobili e nel cinema.  Tutta arte, cioè cultura. Una cultura che ha dato da mangiare al nostro popolo per secoli, ma oggi non più.

Ora l’Italia punta su altro e purtroppo la cultura non dà più da mangiare.

Si è creato un ministero per il Turismo, il che potrebbe rivelarsi positivo. Ma i fondi per la cultura per il momento sono ancora a livelli record (in negativo).
Eppure la speranza è l’ultima a morire.

Il principale veicolo di diffusione di cultura, la Tv, quest’anno ha fatto qualcosa. In passato, già la volgarizzazione della Divina Commedia da parte di Benigni è stata un atto di buon gusto da parte della Tv di Stato, ma quest’anno la Rai ha fatto molto di più, riportando la cultura in Tv, in prima serata.

Vieni via con me, al di là delle polemiche di natura politica e le discussioni sulle capacità di conduttore dello scrittore Saviano, resta una coraggiosa risposta a un palinsesto desolante e superficiale. Poco importa se si trattasse di un programma di parte: il pubblico italiano non può che essere grato a questo concentrato di serietà e riflessione nella giornata che apparteneva alla vacuità assoluta del Grande Fratello. E la cosa più soddisfacente è che quest’ultimo è stato battuto miseramente, segno che forse qualcosa sta cambiando e che non tutta la gioventù ha come obiettivo principale quello di diventare opinionisti, ragazzi immagine, calendar girls, veline o escort. Forse esistono anche altre carriere possibili. Forse si può ragionare sulla realtà in cui viviamo e sul fatto che la maggioranza del pubblico italiano abbia guardato un programma di minoranza, cioè di opposizione, condannato dal governo.
Ma un’altra notizia per cui complimentarsi alla Rai è la scelta di trasmettere il teatro in prima serata sul principale canale, Raiuno. Dopo 33 anni di assenza, il teatro non solo è tornato in Tv ma ha anche raccolto un inaspettato, grandissimo successo di pubblico con la messa in onda di Filumena Marturano. Segno che forse la cultura e il coraggio di investirvi, paga ancora.
Con la speranza che il 2011 porti altre iniziative simili.

lunedì 27 dicembre 2010

Film perso n°4

HOWL - URLO
di Rob Epstein e Jeffrey Friedman
USA, 2010


Da recuperare perché:


- il film unisce due componenti che a scuola avremmo visto volentieri insieme: la didattica e la fantasia.

- testimonia un’importante vittoria storica nei confronti della repressione morale


TRAMA


Nel 1957 l’editore Laurence Ferlinghetti viene processato per oscenità in seguito alla pubblicazione di una raccolta di poesie scritte da un esordiente. La raccolta si chiamava Howl (ululato, in italiano tradotto con Urlo) e l’aspirante poeta era Allen Ginsberg. Alla fine l’editore venne assolto (non è uno spoiler, è la storia!) con una frase da riportare:

La vita non può essere contenuta in uno schema in cui tutti agiscono nello stesso modo conformandosi a un modello precostituito.
Ginsberg (James Franco) fu esponente di spicco della Beat Generation e amico di tutti i membri catalogati in questa corrente, da Jack Kerouac (Todd Rotondi), sua “musa”, a Neil Cassidy (Jon Prescott), con cui ebbe una travagliata storia d’amore durata quasi vent’anni tra alti e molti bassi. Ma la storia della sua vita fu quella con Peter Orlovskj (Aron Tveit) col quale rimase legato per 40 anni e il quale è scomparso pochi mesi dopo la premiere del film al Sundance. Ma non è un film sulla sua vita sentimentale, alla quale viene dato peraltro pochissimo spazio: l’obiettivo è molto più ambizioso e consiste nello trasporre in immagini i versi del poeta. Tra un verso e l’altro c’è anche la ricostruzione del processo e di un’intervista che offrono un ritratto dell’uomo. L’originalità della pellicola sta nel dare vita alla poesie attraverso sequenze animate ispirate ai fumetti Illuminated Poems con cui Eric Drooker illustrò alcune opere di Ginsberg e ad alternarle al biopic e al court-drama:  tre film in uno che raggiunge a malapena la durata minima concessa (80 minuti), per lo più ripetendo diverse volte alcuni versi, per inculcarli nelle teste degli spettatori. L’impressione è quindi che i registi abbiano voluto creare un’opera fortemente divulgativa e allo stesso tempo artistica.

Dietro a quest’opera di Rob Epstein e Jeffrey Friedman, entrambi registi di alcuni documentari divulgativi a tematica gay e il primo pure premiato  con l’Oscar per un documentario su Harvey Milk c’è pure Gus Van Sant come produttore esecutivo.

Complessivamente Howl è un film interessante dal punto di visto visivo, con ottimo montaggio e fotografia, belle musiche non originali (Gershwin) e un adeguato protagonista. Che il film cada spesso nel didascalico è allo stesso tempo suo pregio e difetto, nonchè suo scopo. Se 50 anni fa Ginsberg scioccava l’America oggi questo film sulla sua opera andrebbe mostrato nelle scuole.
VOTO. 7+

Incassi italiano: 230.000

Incasso Usa: addirittura meno!

Gli originali    e   gli attori..

mercoledì 22 dicembre 2010

Film perso n°3

IO SONO L'AMORE
di Luca Guadagnino,
Italia, 2010

"I Am Love is such a lush, deeply textured banquet of sights and sounds that it deserves more than a movie review".
                                                                             Washington Post
                                                                                                                             
È quello che penso anch’io. Io sono l’Amore andrebbe studiato e approfondito con saggi, articoli e quant’altro perché la sua carica visiva debordante ne fa uno dei migliori esempi del potenziale del cinema italiano dell’ultimo decennio. E sottolineo potenziale perché il film di Guadagnino non è un’opera perfettamente compiuta, ma indubbiamente un lavoro che va ricordato, a differenza di quanto è stato fatto dalla stampa italiana.
                                                         
Tre significative scene del film

Valerio Parenti, Edoardo Gabbriellini e Tilda Swinton in cucina
Tilda Swinton cammina sui tetti del Duomo di Milano mentre riflette sull'omosessualità della figlia

Tilda Swinton all'interno della Chiesa del Cimitiro Monumentale di Milano dopo aver rivelato il proprio adulterio
 
La frase nessun è profeta in patria è sempre di grande attualità in Italia: ogni stato democratico darebbe grande risalto alla notizia della vittoria di una Palma d’oro da parte di un proprio connazionale e ne farebbe anche motivo d’orgoglio. Qui da noi si è preferito censurare la vittoria di Elio Germano solo perché simpatizzante per l’opposizione.

Non ci sono invece ragioni politiche dietro alla misteriosa sorte di Io sono l’amore, per lo più stroncato dalla critica nazionale (a parte Ciak, Film.tv e pochi altri) e osannato invece da quella straniera. La critica italiana forse non ha perdonato a Guadagnino il famigerato Melissa P. Negli USA invece, dove i trascorsi del regista erano sconosciuti, il film è stato accolto come un capolavoro, ottenendo, su rottentomatoes (sito che converte in numeri i pareri della critica) la sbalorditiva percentuale dell’83% contro l’87% di Inception, tanto per fare un paragone. Io sono l’amore è bello quanto Inception? Un film italiano può essere bello quanto quel capolavoro americano? Impossibile da concepire, ma sembra proprio così. Eppure noi italiani preferiamo i film statunitensi e viceversa, tanto che qui tutti hanno parlato di Inception e praticamente nessuno si è accorto di Io sono l’amore.

Così il film di Luca Guadagnino è stato distribuito in una trentina di sale, incassando 450.000 risibili euro e ottenendo critiche piuttosto fredde.

Nel resto del mondo invece, I’m love ha racimolato più di 10 milioni di dollari, ottenuto il plauso della critica e la nomination ai Golden Globes come miglior film straniero.
Questa nomination è proprio meritata perché Guadagnino firma un’ambiziosissima, perfino sfacciata rilettura di temi viscontiani, trasformando Milano in uno sfondo assolutamente indimenticabile, impresa finora compiuta solo da Antonioni e facendoci innamorare di una villa milanese assolutamente da visitare.


Non è né scontato né azzardato chiamare in causa Visconti perché questo ritratto di famiglia in un interno mette in scena una situazione familiare non molto diversa da quella de La Caduta degli dei con la stessa maniacale cura per i dettagli (architettonici, scenografici, ambientali), l'uguale compiaciuta decadenza e un' opulenza visiva che si trasforma in un atto d’accusa nei confronti di una classe morente.
Insomma quaranta anni dopo la ricca borghesia non è ancora morta ma un altro regista è pronto a immortalarne la caduta, aggiungendovi un elemento nuovo e interessantissimo. La ricca borghesia o aristocrazia dipinta dai film di Visconti era in crisi perché chiusa in se stessa e incapace di guardare fuori e avanti. Qui la ricca dinastia è in crisi anche perché capace di guardarsi intorno.
La figlia (Alba Rohrwacher) trova a Londra una serenità (di tipo sessuale) che a Milano probabilmente non potrebbe avere. Emma (Tilda Swinton), sulla via per Nizza si ferma a Sanremo e vi ritrova se stessa nella chiesa ortodossa e nella relazione con il coetaneo del figlio. La bellissima, gelida Milano imbiancata dalla neve sembra aver paralizzato per anni le vite delle due donne.

Ma andiamo per ordine: Emma è una donna russa letteralmente conquistata dal marito (dal non casuale nome di Tancredi) che la preleva dal paese natio e le cambia nome. Emma è la donna perfetta di una ricchissima famiglia industriale, finché qualcosa non si spezza nel magico ingranaggio: irrompe il solito sconosciuto outsider che travolge l’agiata routine familiare (Teorema?) fino a portarla al baratro, e a portare la donna al peggiore dei dolori che una madre possa provare. Eppure questo immenso dolore rappresenta per Emma forse l’inizio di una nuova vita.

Nulla di nuovo insomma e raccontato neppure troppo bene: la sceneggiatura (alla quale collabora anche Ivan Cotroneo) si macchia di un’ultima parte da dimenticare in cui pare che gli stessi autori non sappiano più come gestire il proprio racconto dopo che si è raggiunto il climax. Perché una donna che trova la serenità nell’adulterio deve essere per forza punita dal destino? Espediente romanzesco troppo inflazionato per poter essere apprezzato. Ma Io sono l'amore si fa amare per altre doti.

La forza del film sta nelle interpretazioni, nelle musiche e nella fotografia. La straordinaria protagonista inglese Tilda Swinton che parla un perfetto italiano con perfetto accento russo si sarebbe meritata maggiori premi di un Nastro d’argento. Notevole però tutto il cast: l’oramai onnipresente Alba Rohrwacher, presente in due dei migliori titoli italiani dell’anno, la meravigliosa Diane Fléri e l’intenso Flavio Parenti provenienti da una serie Tv come I liceali, il redivivo Edoardo Gabriellini (che dopo Ovosodo si era un po’ perso) e la rediviva e tiratissima Marisa Berenson (che gaurdacaso Visconti voleva vedere maritata col suo Helmut Berger).
Le splendide musiche del premio Pulitzer John Adams (anche autore di alcuni brani di Shutter Island) scandiscono la narrazione del film più di qualsiasi scena madre o battuta. Infine la fotografia di Yorick Le Saux (collaboratore di lunga data di François Ozon): barocca, straripante, ossessiva, da odiare o amare. Stesso vale per il montaggio.  Personalmente io prediligo le fotografie e le musiche invasive quello che invece di registrare i fatti, fanno parlare le immagini e i dettagli. Qui ogni immagine diventa viva e magica: le statue, gli insetti, i particolari scenici.
 E a proposito di scenografie e arredi, come non citare la coprotagonista di questa vicenda, l'elegantissima Villa Necchi Campiglio di via Mozart a Milano (sede di due musei), edificio razionalista e costruito quindi in pieno Fascismo. Non è un caso che in una breve dialogo si parli della collaborazione tra la famiglia e il regime, cioè quel sistema che incarnava un po’ gli ideali di una famiglia che Emma e due dei suoi figli sembrano non riuscire più a rispettare.
Manierista, patinato, melodrammatico, sfacciato? Sì.
Ma anche un film barocco che sorprende, coinvolge e affascina grazie a una fotografia e delle musiche insinuanti e traboccanti. Da odiare o amare. Io l' ho amato perché mi ha fatto scoprire un regista dal talento visivo invidiabile e perché mi ha fatto aggiungere una tappa obbligatoria alla mia prossima visita a Milano.

VOTO: 7/8

Incasso italiano: 450.000 euro

Se ancora non siete convinti, ecco qua le recensioni delle principali testate statunitensi (mica bruscolini):

“A stunning achievemt”
                                     Variety
“Elegantly directed and exquisitely photographed, the movie is a triumph”
                                                                                                   New York Observer

“Elegant Italian drama about the suffocating power of family, wealth, and tradition”
                                                                                                               Chicago reader

lunedì 20 dicembre 2010

Il primo giorno d'inverno

Quella di domani sarà la notte più lunga della notte, perché domani è il primo giorno d'inverno.
Per l'occasione Mymovies propone alle 21:30 lo streaming di un film intitolato appunto Il primo giorno d'inverno, diretto da Mirko Locatelli.
Si tratta di uno dei belli & invisibili dell'anno scorso, da me inserito nei titoli da recuperare nel post che potete leggere qui. Un film sull'incomunicabilità, il disagio giovanile e il bullismo.
Da non perdere!
Ecco il link sul quale iscriversi per poterlo vedere

http://www.mymovies.it/live/ilprimogiornodinverno/

sabato 18 dicembre 2010

Film perso n°2

Premio Organizzazione Cattolica internazionale per il cinema

Premio Unione degli atei e degli Agnostici Razionalisti

Se vi sembra impossibile che un film possa aver vinto entrambi i premi vi sbagliate, perché Lourdes riesce nella miracolosa impresa di mette d’accordo tutti, credenti e non.


LOURDES
di Catherine Hausner,
Frania, Austria, 2009

Da recuperare perché:


1) affronta il modo del tutto inedito un argomento molto delicato

2) fa riflettere su una realtà che al cinema raramente trova spazio

3) è una delle sorprese del penultimo Festival di Venezia dove ha vinto anche il Premio della giuria internazionale


 
Si astengano coloro hanno detestato Somewhere, anche se qui il tema è più condivisibile: se provare pietà per un divo ricco e bello che si piange addosso non era facile, lo è molto di più quando assistiamo alla storia di una giovane donna completamente immobilizzata su una carrozzina. Al vincitore di Venezia di quest'anno lo accomuna l'incedere lento, la trama scarna e un' allure pretenziosa che a volte può infastidire ma a cui va riconosciuto uno stile molto personale e il tentativo di mostrare una realtà diversa.

Lourdes, in uno dei tanti ostelli per pellegrini, una giovane donna di nome Christine (Sylvie Testud) colpita da una sclerosi a placche che l’ha condannata a vivere in carrozzella, muove solo gli occhi: ma quanta vivacità in quello sguardo! -Se non andassi ai pellegrinaggi sarei sempre chiusa in casa- risponde alla volontaria che l’accudisce (Léa Seydoux, l’anno scorso diretta da Tarantino e l’anno prossimo da Allen).
Poi d’un tratto, la donna si alza e cammina.
La medicina la smonta subito dicendo che può essere un miglioramento passeggero, ma più passa il tempo più la parola miracolo si fa adeguata, anche se l'unico riconoscimento che riceve è una statuina della Madonna per essere stata "la miglior pellegrina dell'anno", come se il suo miracolo fosse il risultato di una gara.  La donna torna a sorridere e vuole assaporare tutto quello che le è stato tolto: bacia il suo poliziotto (un sempre gradito Bruno Todeschini) e balla con lui in una serata a lei dedicata.
Finalmente non è più oggetto di sguardi pietosi. Il compatimento si tramuta in invidia e pettegolezzo: perché proprio lei che è alla sua prima visita a Lourdes? Perché si lascia andare a comportamenti così poco religiosi come i baci e la danza? Ecco che appena inciampa la sua compagna di stanza appare con una carrozzella, come se non aspettasse altro e la giovane miracolata, chissà perché, accetta di sedervisi nonostante riesca benissimo a stare in piedi.
Il film finisce così, non rivelando se quello di Christine è un miracolo o un miglioramento passeggero. Il dubbio era già stato suggerito da due pie pellegrine che all’inizio parlavano di un uomo guarito per pochi giorni.
Tutto e tutti ci fanno pensare che Christine è condannata a tornare allo stato di disabile dopo il suo effimero momento di gloria, eppure noi spettatori non lo sapremo mai.

Il pregio del film è di raccontare questa sagra del Kitsch e del mercato religioso in maniera elegante e distaccata. Il tono raffreddato diventa ancora più efficace nel rappresentare queste storie dolorose senza mai indugiare sulla pietà dello spettatore. Il personaggio di Christine riunisce un misto di pietà e ironia che permette di affrontare in maniera più distesa il dramma che porta. La straordinaria perfomance dell’attrice Sylvie Testud è stata meritatamente premiata con l’European Film Award come miglior attrice dell’anno. Ai pregi del film si aggiunge anche la colonna sonora: tanto organo, l’Ave Maria di Schubert udita per due volte per intero e La Toccata e fuga di Bach. Spiazzante la scelta di concludere il film sulle note di Felicità di Albano e Romina, che però a ben gaurdare si adatta perfettamente a esprimere il desolante Kitsch da oratorio di questi ostelli per pellegrini.

VOTO : 7+

Incasso italiano: 250.000 euro

giovedì 16 dicembre 2010

Film perso n°1

Torna anche quest'anno la rubrica dedicata ai film belli ma invisibili passati immeritatamente in sordina nelle nostre sale.  Film perduti nel circuito della nostra distribuzione, anzi persi, in omaggio al nome del blog ma anche perché me li sono appunto persi quando uscirono al cinema!
BROTHERHOOD-FRATELLANZA
(BROFERSKAB)
di Nicolo Donato
DA RECUPERARE perché:


1) ha vinto il primo premio in uno dei festival italiani più in vista
2) affronta tematiche sulle quali tutti dovrebbero riflettere
Davvero triste che il film vincitore del Marc’Aurelio d'oro alla Festa del Cinema di Roma sia stato distribuito pochissimo in estate inoltrata, condannandolo a un’invisibilità sicura.

Eppure la vittoria del film d’esordio del regista italo-danese 36enne Nicolo Donato, formato presso la vontrieriana Zentropa ha ottenuto una certa risonanza visto lo scottante tema trattato. Proprio per questo mi sarei atteso un grande scandalo tra la stampa conservatrice al momento dell’uscita, in modo da potergli garantire almeno un pizzico di successo di scandalo. Nemmeno quello. Il motivo è che fa paura all’opinione pubblica italiana pensare che tra i militanti di destra possa nascere un amore omosessuale. Nel film inoltre si tratta addirittura di due naziskin e non di due esponenti del Pdl!

Diciamo che questo film non è esattamente un capolavoro e forse al festival c’erano film migliori, ma il fatto che il pubblico gli abbia assegnato il primo premio è indice di un pubblico attento ai problemi delle discriminazioni e della xenofobia, nonostante la stampa faccia pensare al contrario.

Il film nasce in risposta alla proposta di legge del reinserimento dell’obbligo di servizio militare. Senza mezzi termini Donato suggerisce che la strada che porta un soldato ai raid notturni dei naziskin è breve. Violenza genera comunque altra violenza, insomma. Il percorso è strano e inverosimile, visto che prima il protagonista è del tutto contrario ai nazi e poi d’un tratto diventa uno di loro. Il fatto è, però, che questo nuovo membro,  tanto stimato per le sue capacità e i suoi meriti, diventa bersaglio di disprezzo collettivo non appena viene smascherata la sua identità sessuale.

Per questo Brotherhood-Fratellanza merita di essere ripescato: mostra, pur con qualche sbavatura, una storia d’amore gay in un ambiente decisamente etero come lo era quello di Brokeback Mountains. Una storia d'amore nata in circostanze impossibili insomma. Recitato assai bene, incupito da una fotografia algida che sottolinea la freddezza dei rapporti umani all’interno del gruppo e accompagnato dalle buone musiche in gran parte composte dallo stesso regista. I personaggi appaiono assai sfocati, ma quel che conta è l’atmosfera, il messaggio.

Voto: 7+

Incasso italiano: 125.000 euro

domenica 12 dicembre 2010

Punto della situazione

Chiude il sondaggio dedicato al vostro film preferito con Anna Magnani con 13 miseri voti che decretano la vittoria del viscontiano Bellissima e la sconfitta, con l'ultimo posto in classifica, al film che le procurò l'Oscar. 
Ora all'appello manca solo un nome per completare questa triade sulle attrici italiane più famose di tutti tempi: ma ne riparleremo tra un anno.
Le ultime settimane di questo 2010 saranno dedicate a classificoni e riflessioni sull'anno ormai agli sgoccioli e a qualche consiglio sui film invisibili da recuperare.

venerdì 10 dicembre 2010

Un Woody Allen che non vorremo mai (ri)vedere

INCONTRARAI L'UOMO DEI TUOI SOGNI
(YOU WILL MEET A  TALL DARKSTRANGER)
di Woody Allen, 2010


 Una coppia di quarantenni in crisi, una coppia scoppiata di ultrasessantenni e ancora amanti, aspiranti tali ed escort. Riassumere la trama di questo film corale non è semplice e nemmeno necessario. Quel che conta sapere è che siamo di fronte a tante storie di uomini mediocri che hanno a che fare con temi cari ad Allen: il tradimento, le aspirazioni letterarie, il fato e la cartomanzia. Di completamente nuovo e inaspettato è la totale mancanza di battute incisive. Non sembra nemmeno un film di Woody Allen: niente humour, nessun riferimento alla cultura ebraica, nessuna irriverenza, nessun riferimento letterario o filosofico troppo alto, nessuna cacofonia, nessun monologo spiazzante, nessuna battuta memorabile, divertente o graffiante. È un film liscio, che non graffia, non diverte, non irrita i borghesi, anzi: si allinea perfettamente a un pubblico patinato piccolo borghese dal quale Woody Allen si è sempre tenuto alla larga, vuoi col suo sfacciato intellettualismo snob, vuoi con le provocatorie battute a sfondo sessuale o (anti)religioso. Qui di Allen non c’è assolutamente nulla. Il film è una commedia né dolce né salata patinata come la fotografia di Wilmos Zsigmond ( già presente in alcune tra le più trascurabili pellicole alleniane come Sogni e delitti e Melinda e Melinda). Non basta che alla fine Allen si mostri insolitamente impietoso con i propri personaggi e non serve a nulla la battutina sull’illusione come miglior rimedio (sul potere dell'illusione si veda piuttosto Ombre e nebbia).

Bisogna ammettere che Londra non pare ispirare moltissimo il regista, a parte l’ormai lontano colpo di fulmine e di genio di March Point e il divertissement di Scoop. Cassandra’s Dream (Sogni e delitti) era infatti il peggior film della lunghissima carriera alleniana, ma con questo ha fatto peggio.

Naturalmente si tratta di un Grande come Allen e quindi il peggiore dei suoi film è comunque superiore alla media dei film in sala. La pellicola infatti gode di un suo ritmo, di una piacevole colonna sonora (Boccherini su tutti) e di una discreta direzione d’attori (il che è però offensivo da un regista che ci ha abituati a prove da Oscar).
“La vita non è che rumore e furore che alla fine non vuol dire nulla” è la frase con cui un’invadentissima voce fuori campo apre e chiude il film. Una frase che ben si addice a un film che non vuole dire nulla.

Insomma questa volta gli è andata male, ma si spera che l’aria di Parigi gli abbia infuso nuova creatività.
VOTO: 6

martedì 7 dicembre 2010

La donna della nostra vita è sempre la mamma....

LA DONNA DELLA MIA VITA
di Luca Lucini, 2010

Due fratelli sono innamorati della stessa donna, senza saperlo. Ma la vera donna della loro vita è un’altra: la mamma. Questa mamma ingombrante e premurosa (Sandrelli) che ci introduce fin da subito nel film diventa man mano la vera protagonista del film. La ragazza contesa (Lodovini) perde man mano di spessore e relega la brava attrice a un ruolo poco gratificante. Non va meglio ai due personaggi maschili interpretati da Argentero, all’inizio presentato come timido protagonista che perde di visibilità nella sua evoluzione; e Gassman che vive il procedimento contrario, acquistando lentamente maggior spessore drammatico, tanto da diventare il più credibile dei personaggi.

La summa di questa commedia degli equivoci, da un soggetto di Cristina Comencini sviluppato in una commedia molto teatrale da Teresa Ciabatti e Giulia Calenda è che nulla è come sembra. Nulla di nuovo, dunque. Ma la pellicola spinge su questo accumulo di equivoci fino alla fine, disseminando nel film una serie di colpi di scena che convergono alla figura materna protettrice, amorevole e diabolica allo stesso tempo. Peccato che il film non si soffermi affatto su questo interessantissimo ultimo aspetto e risolva tutto in un battito di ciglia di una sempre ottima Stefania Sandrelli. Gli altri interpreti, alle prese con un copione teatrale imperfetto, sono in balia di personaggi malamente tratteggiati ai quali riescono dare vivacità solo a guizzi. Così le loro performance ne risentono notevolmente, obbligando Argentero a sfoggiare un ripetitivo sorriso per tutta la seconda parte del film e rinchiudendo la Lodovini in un personaggio senza troppi slanci emotivi. Meglio per la Bergamasco (nei panni della moglie tradita) e Colangelo (nel ruolo di marito della Sandrelli), che con ruoli ridotti, riescono a brillare.

Un’occasione un po’ sprecata per Luca Lucini che firma probabilmente il suo film più debole (sorvolando il famigerato Tre metri sopra il cielo) e ambizioso: da sempre ispirato dalla commedia statunitense, questa volta mira a Cukor e a Sirk, fallendo.

Eppure il marchio Cattleya continua a farsi apprezzare nel panorama italiano grazie al suo garbo e al respiro internazionale delle sue pellicole. E nonostante non venga offerta alcuna battuta memorabile in due ore di lunghi dialoghi, il film si lascia vedere grazie a una schiera di attori che per quanto spaesati, rappresentano il passato (Sandrelli), il presente (Argentero) e il futuro (Lodovini) del nostro cinema.

VOTO: 6+

domenica 5 dicembre 2010

Meglio essere un porco che fascista!

PORCO ROSSO
di Hayao Miyazaki
(1992, al cinema ora)
In epoca fascista, un aviatore dalle sembianze di porco è il più temuto e abile dei cacciatori di teste del Mar Adriatico, finché un americano non lo sfida a un “duello aereo” dal quale esce acciaccato. Così il porco volante, da tutti chiamato Porco Rosso, va a Milano per riparare il suo idrovolante. Qui conosce Fio, una ragazzina che si rivelerà essere molto più di una ragazzina. Tornato nelle sue isole dalmate, sconfigge il suo rivale.

Premetto che è davvero insensato distribuirlo nei cinema ora, a 18 anni dall'uscita, considerando che tra due anni uscirà il sequel. Tanto valeva farli uscire a poca distanza..

In Porco Rosso c’è una bellissima scena col “paradiso dei piloti di idrovolanti”, ma una scena, per quanto suggestiva, non basta a risollevare le sorti di un film.

Lo stesso vale per la battuta -Meglio essere un porco che un fascista!-, che ha fatto gridare al capolavoro.

Sinceramente è un po’ poco per un film che manca soprattutto di idee: la sceneggiatura non è che un abbozzo. È un abbozzo il protagonista, di cui non si sa assolutamente nulla. Qual è poi il climax, il fulcro della vicenda? Quale personaggio risulta perlomeno simpatico? Come accettare che tutte le donne del film si innamorino di un maiale?

Non c’è risposta a nessuna di queste domande purtroppo. Anche la musica (Joe Hisaishi) questa volta è deludente.
Perfino la piccola Fio, che dovrebbe rappresentare l’emancipazione della donna in una società maschilista e ignorante risulta simpatica solo nelle prime scene.

Lontanissimo da tutti gli altri suoi lavori che ho visto finora eppure il più autobiografico dei suoi film (la famiglia del regista costruiva aeroplani durante il secondo conflitto mondiale), questo Porco Rosso (è il titolo originale internazionale!) è un’opera che non ha nulla del tipico fascino miyazakiano. Ho trovato del tutto inutile riesumare questo film del 1992 decisamente troppo serioso e verboso. Eppure il film è tra i preferiti dello stesso autore, che ha deciso addirittura di realizzarne un sequel, al quale sta lavorando attualmente.
A me comunque pare un tentativo fallito di esprimere intenti politici e ideologici e mescolarli con la fantasia. Sono pronto agli insulti!

VOTO: 6

mercoledì 1 dicembre 2010

The social network: la rete di un'indolenza morale in cui tutti siamo intrappolati

THE SOCIAL NETWORK
di David Fincher, 2010

Mark Zuckerberg è un ragazzo solitario e un po’ strambo che viene mollato dalla sua ragazza. La sua vendetta sarà feroce, ma assai proficua dato che lo trasformerà in uno degli uomini più ricchi del mondo. Il che lo porterà però a una ulteriore solitudine in quanto presto tradirà i pochi amici che aveva. Che i dialoghi siano l’aspetto più peculiare del film si capisce fin dal primo, spiazzante (e snervante) botta e risposta tra Mark e la sua ragazza. Dopo i titoli di testa una raffica di battute impossibili da seguire per chiunque non sia un programmatore informatico specializzato in internet. Poi però, finalmente il film decolla e non lascia allo spettatore un attimo di tregua, tanto che le due ore filano via come un razzo. Merito dello sceneggiatore Aaron Sorkin che ha magnificamente adattato il romanzo di Ben Mezrich, e di David Fincher che ha saputo organizzare la materia in modo originale e avvincente. Si è ispirato a Rashomon dice lui, ma non è ardito nemmeno scorgervi Citizen Kane (Quarto Potere): si tratta di capolavori assoluti della storia del cinema che ricordano The Social Network non solo per le trovate narrative, ma anche perché qui ci troviamo di fronte a un film che certamente lascerà un’impronta nella storia del cinema e la cui portata la si potrà comprendere solo tra qualche anno. Non solo per la tecnica, che è sì perfetta, ma per nulla rivoluzionaria, quanto per il contenuto. Il film infatti va molto oltre la storia di Facebook, trasformandosi in uno specchio della società che in un futuro si trasformerà in un prezioso documento sociologico. Questa è la società occidentale d’oggi: in cui ciò che conta è avere più contatti possibili per rimanere però sostanzialmente soli. Sotto le calme apparenze, il film nasconde un messaggio tra i più allarmanti che il cinema ci abbia mai dato: è il segnale di una generazione destinata inevitabilmente alla catastrofe in cui manca il confine tra bene e male e mancano le sfumature. Alla fine del film la simpatia dello spettatore non è riservata a nessuno dei personaggi, perché tutti troppo egoisti. Eppure non si può dire che ci siano antipatici, nemmeno l'anti-eroe protagonista. Fincher riesce così a illustrare perfettamente il vuoto esistenziale di una generazione senza passioni e senza emozioni.
 Ma con questo film vengono illustrate anche le vere ragioni del social network: farsi i fatti altrui e soprattutto rimorchiare. E un mondo interessato solo alla serialità dell’atto sessuale non può funzionare. La cosa peggiore è che dopo la visione, ogni spettatore si rende conto che Facebook & company sono davvero tutto questo e noi non siamo da meno degli immorali personaggi del film perché tutte vittime e carnefici di un sistema virtuale, sociale e globale.
E che ansia queste università facoltose statunitensi in cui l’imperativo è l’esclusività, la ricchezza economica e la creatività ad ogni costo. Un microcosmo chiusissimo in se stesso che detta le leggi e decreta chi può accedervi. Proprio come il social network: chi è fuori è tagliato del mondo che conta.

Altri punti a favore del film sono la colonna sonora, l'eccellente montaggio e le notevoli prove del protagonista Jesse Eisenberg, di Justin Timberlake (che ha trovato un’attività a lui molto più consone rispetto a quella musicale) e Armie Hammer (a fianco e sotto) che si sdoppia nei gemelli Winklevoss, trovata assolutamente folle e insensata che vorrei mi
fosse spiegata al più presto.
Scena culto: la gara di canottaggio
http://www.youtube.com/watch?v=zatmdqTYivI&feature=player_embedded

Voto: 8,5