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domenica 30 giugno 2013

GLI 80 ANNI DI LEA MASSARI

LEA MASSARI

Anna Maria Massatani nacque a Roma il 30 giugno 1933, ma trascorse l'adolescenza tra Francia, Spagna e Svizzera prima di diventare modella e poi attrice a 22 anni, adottando il nome d'arte Lea, in memoria del fidanzato morto pochi giorni prima delle nozze.
La sua carriera fu inaugurata da nientemeno che Mario Monicelli, che le affidò una piccola parte in Proibito, nel 1954. Ma fu Michelangelo Antonioni a lanciarla con L'avventura, in cui Lea interpreta la donna che scompare all'inizio del film.
Negli anni Sessanta seguirono tanti altri ruoli in film diretti da grandi registi: La giornata balorda di Mauro Bolognini (1960), Il colosso di Rodi di Sergio Leone (1961) e Una vita difficile di Dino Risi (1961), ma furono gli anni Settanta che la imposero a livello europeo, grazie a diverse opere francesi di rilievo come L'amante di Claude Sautet, del 1970, il rischiosissimo ma applauditissimo Soffio al cuore di Louis Malle del 1972 e La Femme en bleu di Michel Deville del 1973.
In Italia intanto recitava ne La prima notte di quiete di Valerio Zurlini (1973), Allonsafan dei Fratelli Taviani (1974) e Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi che nel 1979 le fece vincere il Nastro d'argento come migliore attrice non protagonista. Gli anni Settanta furono anche quelli del teatro, della prosa e dei grandi sceneggiati, da I promessi sposi ad Anna Karenina.
Negli Ottanta le sue apparizioni si fecero sempre più sporadiche e l'ultima sua apparizione risale a un dimenticabile e dimenticato film del 1991, Viaggio d'amore.
Da allora di Lea si sono perse un po' le tracce, ritirandosi in Sardegna col marito e tanti cani.
Della sua vita privata si è sempre saputo pochissimo, non ha mai voluto essere diva, non ha mai cercato la visibilità. Di attrici come lei, oggi non ce ne sono e non ci saranno più.

venerdì 28 giugno 2013

Diamo le nostre vita al lavoro, è giunto il momento di riprendercele indietro.

THE COMPANY MEN
Di JOHN WELLS,
USA, 2010
Con Ben Affleck, Tommy Lee Jones, Kevin Costner, Rosemarie DeWitt, Chris Cooper,  Maria Bello, Craig T. Nelson
Se ti piace guarda anche: Volevo solo dormirle addosso, In good company, Tra le nuvole,
 
TRAMA
Bobby Walker, importante manager di una grande multinazionale viene improvvisamente licenziato, assieme a molti altri colleghi. Trentasette anni, villa e auto da sogno, Bobby è l’orgoglio della moglie casalinga e dei due figli, che da un giorno all’altro si vedono costretti a cambiare vita.
Bobby ha ottime referenze e tanta esperienza, perciò è ottimista, ma il tempo passa, il sussidio finisce e il lavoro non arriva. La famiglia è costretta a vendere auto, casa e a tornare a vivere dai genitori di lui, mentre il fratello di lei, rozzo falegname che non ha mai visto di buon occhio il cognato sbruffone e ricchissimo, gli offre di lavorare in cantiere.

RECENSIONE
Il regista e sceneggiatore di Shameless, nonché produttore di Mildred’s Piece e ER, tra gli altri, esordisce al cinema nel triplice ruolo di regista, sceneggiatore e produttore con un film di grandissima attualità che affronta in modo serio e convincente il tema della disoccupazione.
Il film ci mostra benissimo come l’uomo che perde lavoro perde tutto, dignità in primis, in una società capitalista basata interamente sul lavoro. Solo gli affetti possono salvarlo. Bobby ha dalla sua parte moglie, figli, parenti ed ex colleghi amorevoli che l’aiuteranno, ma purtroppo non per tutti è così. Ma il film è tutt’altro che buonista: dipinge in modo spietato le dinamiche aziendali e ci mostra anche coloro che non ce la fanno a reggere il peso della disoccupazione.
Una buona sceneggiatura e un buon cast aggiungono valore a un film assolutamente impedibile, da noi uscito naturalmente solo in Tv, dopo aver floppato anche negli Usa, nel gennaio 2011, per i temi troppo seri affrontati.
Bellissima la frase di lancio: "In America diamo le nostre vita al lavoro, è giunto il momento di riprendercele indietro." Verissimo, ma senza lavoro non si vive.
VOTO: 8-

giovedì 20 giugno 2013

Una lezione di storia..danese

A ROYAL AFFAIR
(En kongelig affære)
Danimarca, Svezia, Repubblica Ceca 2012, di Nikolaj Arcel
con Alicia Vikander, Mikkel Boe Følsgaard, Mads Mikkelsen, Trine Dyrholm, David Dencik
Se ti piace guarda anche: Anna Karenina, La duchessa, A Dangerous Method,
TRAMA
Nella Danimarca del Settecento Mathilde Carolina è una principessa inglese che si ritrova sposa del giovane re di Danimarca, Cristiano VII, diventando così regina di Danimarca. Da quando era in fasce il futuro compagno le è stato descritto come intelligente, sensibile, colto, bello, ma la ragazza scopre ben presto che suo marito è pazzo. Rimasta fortunatamente subito incinta di un erede maschio, la ragazza evita il consorte e diventa poi amante del suo miglior amico e confidente, un dottore borghese che attraverso un colpo di stato possibile grazie alla fiducia del re cerca di instaurare nel paese le idee illuministe francesi bandite dalla nobiltà. Il suo governo illuminato porterà riforme come l'obbligo del vaccino contro il vaiolo, l'abolizione delle punizioni corporali, della tortura, della censura. Naturalmente il partito conservatore riuscirà a convincere il popolo che tutto ciò è il male assoluto e il popolo ringrazierà di poter tornare alla precedente situazione medievale.
 
RECENSIONE
Dramma in costume, lezione di storia e di politica: un ottima miscela per una pellicola che si allontana dalle solite produzioni in costume, ben confezionate ma troppo incentrate su amori tormentati o vicende politiche spiegate in modo poco accattivante (vedi Lincoln). Della storia danese, dei suoi re e dei suoi intrighi, sappiamo ben poco, ma questo ci presenta un capitolo molto interessante della storia di questa piccola nazione.
Una solida sceneggiatura che ripercorre fedelmente i fatti storici è avvalorata da ottimi interpreti, tra cui spiccano la protagonista Alicia Vikander, già vista in Anna Karenina e Mads Mikkelsen, il volto più noto del nuovo cinema danese. Ottimi anche i reparti costumi, scenografie e musiche. Unica pecca è probabilmente la durata. Una valanga di riconoscimenti all'estero, mentre da noi non è nemmeno uscito e probabilmente non uscirà.
VOTO: 7,5

lunedì 17 giugno 2013

Un valzer in giostra (al gusto di pollo)

TAKE THIS WALTZ
 di Sarah Polley,
USA, 2011
con Michelle Williams, Seth Rogen, Luke Kirby

TRAMA
Margot è una ragazza sposata da cinque anni che un giorno si scopre attratta da un ragazzo appena conosciuto. Vorrebbe cederli, ma allo stesso tempo ama ancora suo marito.

RECENSIONE
Che cosa succede quanto la giostra si ferma, quando l’entusiasmo quasi infantile per ciò che è nuovo si trasforma in realtà, ovvero routine?
Nella buona tradizione dei film indie americani, questa piccola commedia agrodolce di Sarah Polley riesce a regalarci personaggi interessanti e situazioni autentiche che ci toccano nel profondo.
Una sceneggiatura che con pochi tratti tratteggia quotidianità e dialoghi verosimili e riusciti. Situazioni reali, buffe, in cui ci possiamo riconoscere, storie semplici che pongono quesiti serissimi. Il tema è quello del tradimento e Michelle Williams infonde autenticità e interesse a questa giovane moglie fedifraga.

Ma è tutto il trio di attori principali che brilla: Seth Rogen, in un ruolo più maturo del solito e la sorpresa Luke Kirby.
Una bella colonna sonora (il titolo viene dall’omonima canzone di Leonard Cohen, ma è Video Killed the Radio Star a essere leit-motiv della storia) e un’ambientazione che ci porta in un mood diverso dal solito chiasso hollywoodiano rendono questa pellicola una piccola perla da gustare con calma. Possibilmente in infradito e con una padella piena di pollo.
VOTO: 7,5

venerdì 14 giugno 2013

I GRANDI GATSBY

IL GRANDE GATBSY
(THE GREAT GATSBY)
di Jack Clayton,                                                          di Baz Luhrman,
USA, 1974                                                                   USA, 2013
con Robert Redford, Mia Farrow,                        con Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan,
Sam Waterson, Bruce Dern, Karen Black            Tobey Maguire, Joel Edgerton, Isla Fisher

 
                                                              


TRAMA
Nick Carraway è un modesto agente di borsa che arriva nei pressi di New York, dove abita anche sua cugina Daisy, e affitta un cottage nella proprietà del ricchissimo Jay Gatsby: un uomo misterioso che ogni settimana dà delle sontuose feste a cui partecipa tutta New York. Una sera Nick conosce Gatsby, che gli chiederà il favore di fargli incontrare la cugina, Daisy. Gatsby vuole infatti a tutti i costi riconquistare questa donna,  oggi sposata e un tempo suo amore di gioventù.
 
RECENSIONE
Innanzitutto si può dire che entrambi i film sono molto fedeli al celeberrimo romanzo di F. Scott Fitzgerald, ma pur presentando la stessa durata, quello di Luhrman si prende più libertà rispetto alla fonte letteraria, aggiungendo come prima cosa una cornice inedita, quella del flashback del narratore ricoverato in una clinica psichiatrica, e soprattutto, il regista australiano dilata di tempi dedicati agli sfavillanti festeggiamenti a scapito di alcuni snodi narrativi o dell’approfondimento di alcuni personaggi che ha preferito eliminare o limitare: è il caso del padre di Gatsby, qui assente, o del personaggio di Myrtle, notevolmente ridotto; così come è stata tagliata la relazione tra Nick e Jordan; infine manca un’ultima cruciale scena che nel film di Clayton dipingeva meglio il carattere di Daisy.
Le opere di Fitzgerald, uno degli autori letterari più importanti della letteratura americana, sono sempre risultate difficili da portare sullo schermo e nonostante lo sforzo di grandi registi, sceneggiatori e attori, gli adattamenti dello scrittore si sono sempre rivelate megaproduzioni curatissime ma poco emozionanti:  da L’ultima volta che vidi Parigi (1954, di Richard Brooks, con Elizabeth Taylor) fino a Gli Ultimi fuochi (1976, di Elia Kazan con Robert De Niro) risultano delle opportunità sprecate. Solo Luhrman è riuscito a restituire alle pagine di Fizgerald un vortice di immagini, emozioni, sogni e bassezze ben adattandole a un pubblico attuale.
Ma veniamo alla qualità delle due pellicole: ciò che la maggior parte della critica ha rimproverato al film di Luhrman era perfettamente riscontrabile nel film di Clayton: un sontuoso involucro che si rivela vuoto come il mondo che Fitzgerald voleva criticare, con personaggi che non convincono e non coinvolgono.
Qui al contrario, i personaggi di Fitzgerald tornano in vita: il Gatsby di DiCaprio è molto più vero di quello dell’ingessato Redford: si arrabbia, piange, si scompone e poi ricompone, e non smettere di credere nel suo sogno, coinvolgendo e convincendo lo spettatore. Anche il narratore-testimone di Nick Carraway qui si fa più interessante, grazie anche alla prestazione di un Tobey Maguire più espressivo del solito. Più difficile l’opinione su Daisy, personaggio ambiguo per eccellenza: qui umana, troppo umana grazie alla lacrimosa e sempre efficiente Carey Mulligan. La Daisy di Mia Farrow trasmetteva meglio la sgradevolezza del personaggio che Luhrman e il suo fidato sceneggiatore Craig Pearce hanno voluto, smorzare rendendo l’ossessione di Gatsby più comprensibile ma allo stesso tempo riducendo la feroce critica sociale di Fitzgerald.
Nella sceneggiatura dunque Craig Pearce e Luhraman battono nientemeno che Francis Ford Coppola, che ha recentemente dichiarato che Clayton non seguì per nulla la sua versione, DiCaprio & co; co battono Redford & co; co e poi c’è l’aspetto visivo e musicale, come sempre sfavillante in Luhrman. Meno Kitsch, barocco e originale rispetto ai suoi due titoli più famosi, il Grande Gatsby riesce comunque a creare un grande spettacolo per gli occhi in un tripudio di colori e un montaggio frenetico, che finisce per diventare a tratti perfino fastidioso con delle zoommate troppo repentine. Nulla a che fare con la versione patinatissima, leccata e lenta del film di Clayton.

Per quanto riguarda l'aspetto musicale, Luhrman straccia la colonna sonora jazz di Clayton on un mix anacronistico di jazz, hip hop, tecno e pop, non sempre riuscito e lontano dall'irripetibile Moulin Rouge!, ma comunque memorabile almeno nel brano che fa da leit-motiv del film, la sublime Young and Beauitful di Lana del Rey degno premio Oscar dell'anno prossimo.
Solo per quanto riguarda le location si può preferire la versione di trent’anni fa: decisamente meglio infatti le location reali rispetto all’opulente castello luhrmaniano creato interamente in post-produzione. Troppi sono gli elementi creati in post-produzione con effetti digitali da videogioco di serie B, ma nel guazzabuglio barocco di Luhrman sembra un difetto minore.
Curioso che, pur essendo ambientata a New York e dintorni, la versione del regista inglese fu girata in gran parte in Inghilterra, mentre Luhrman ha preferito girare molte riprese nella sua Australia.
Concludendo: la versione del 1974 appariva didascalica, troppo patinata e priva del respiro del romanzo di Fitzgerald, mentre Luhrman riesce a infondere nuova linfa al classico di Fitzgerarld.

VOTO VERSIONE 1974: 6                                            VOTO VERSIONE 2013: 8,5

mercoledì 12 giugno 2013

Uno, nessuno, centomila effetti collaterali

EFFETTI COLLATERALI
(SIDE EFFECTS)
di Steven Sodebergh,
USA, 2013
con Jude Law, Rooney Mara, Catherine Zeta Johnes, Channing Tatum, Vinessa Shaw
Se ti piace guarda anche: Uomini che odiano le donne, Contagion
TRAMA
Una ragazza attende che il marito venga rilasciato, ma appena i due si ritrovano, lei comincia a soffrire di quella depressione che per anni ha cercato di evitare.. Per fortuna trova uno psichiatra che si prende cura di lei…

RECENSIONE
Dopo il pessimo divertissement commerciale Magic Mike Sodebergh torna a un cinema più serio con un film accattivante che ha il pregio di sollevare tante riflessioni ma di accumularle con una frenesia tale che alla fine lascia lo spettatore stordito, se non già assopito nella prima parte.
La sceneggiatura è ingegnosa, macchinosa, ma la messa in scena non è capace di distribuire in modo equilibrato ritmo e tempo, cosicché la prima parte risulta lenta, noiosa, fin troppo semplice e poi il finale accumula troppi colpi di scena in pochissimo tempo, sbrigando in pochi minuti una storia intricatissima.
Peccato, perché la storia è spiazzante e molto interessante, ed è davvero difficile parlarne senza svelare particolari fondamentali alla visione, ma si può dire che durante il film cambiano più volte protagonisti, punti di visti, messaggi.
Sodebergh si diverte a costruire e distruggere, ingannare e stupire, ribaltando in continuazione una storia che inizia come una denuncia alle case farmaceutiche (e per un attimo si pensa al Sodebergh “civile” dell’illuminato Erin Brokovich o quello del ben meno brillante Contagion) per poi trasformarsi nel ritratto di una truffatrice a sua volta truffata e di uomo ingannato a sua volta ingannatore..
Insomma nulla è come sembra, nessuno è come sembra, sono tutti vittime e spietati carnefici.
Rispetto a Magic Mike sicuramente un balzo in avanti, però la regia non è soddisfacente.

VOTO: 6,5

venerdì 7 giugno 2013

Un film culinario che non mette appetito

LA CUOCA DEL PRESIDENTE
(LES SAVEURS DU PALAIS)
di Christian Vincent,
con Catherine Frot, Jean d'Ormesson, Hippolyte Girardot, Arthur Dupont
Se ti piace guarda anche: Julie & Julia, Chocolat, Sapori e dissapori
TRAMA
Francia, fine anni '80. Hortense, una cuoca che vive in uno sperduto villaggio del Perigord, famoso per foie gras e tartufi, viene scelta per diventare cuoca privata del Presidente. Turbata dall'evento, che a quanto pare non può discutere, si fa ben presto odiare dallo staff interamente al maschile della cucina centrale del'Eliseo ma si fa apprezzare dal Presidente in persona col quale avrà il piacere di parlare più volte.
 
RECENSIONE
Pubblicizzata come commedia culinaria che ha stregato il pubblico francese, questo film il cui titolo letterale sarebbe "I sapori del palazzo" è tutt'altro che saporoso.
Difficile definirlo una commedia visto che non si sorride nemmeno, ma non è neppure un dramma.
Anche dal lato gastronomico il film attrae poco: le ricette sono troppo elaborate, costose e particolari per far venire l'acquolina in bocca: farciture a base di sangue di pollo, interiora di vitello e soprattutto tanto, ma tanto tartufo e foie gras.
 
Non è esattamente la cucina di Benedetta Parodi, alla portata di tutti, e presto all'Eliseo se ne rendono conto a invitano la cuoca a tagliare i fondi: questo e lo stress accumulato la portano a lasciare il prestigioso incarico e a fuggire in un'isola antartica come cuoca di una mensa.
Le scene antartiche sono così continuamente alternate con quelle parigine, per mostrare i contrasti tra i due incarichi, peccato però che il film si limiti solo ad accennare gli intrighi e la stressante e incomprensibile etichetta ch egoverna l'Eliseo e quindi la scelta della cuoca Hortense viene sbrigata frettolosamente e il suo personaggio resta abbastanza impenetrabile. Peccato anche per Catherine Frot (La voltapagineLezioni di felicità) , bravissima attrice francese qui imprigionata in un ruolo paradossalmente insipido.
L'interesse si concentra tutto nel conoscere e indignarsi per l'esorbitante e inutile numero di personale che lavora per l'Eliseo, con gerarchie e etichette da rispettare scrupolosamente. Passati i primi venti minuti, il film quindi perde d'interesse Toute a poco serve la consueta finesse del cinema francese.
VOTO: 5,5

martedì 4 giugno 2013

Educazione siberiana

EDUCAZIONE SIBERIANA
Di Gabriele Salvatores,
Italia, 2013
Con Arnas Fedaravicius, Vilius Tumalavicius, John Malkovich, Eleanor Tomlinson.
 
Educazione siberiana esordisce come un violento e cupissimo dramma politico in cui vengono enunciate le fondamentali leggi che regolano lo strambo microuniverso di una comunità siberiana.

Premesse man mano disattese col proseguire del film, che diventando racconto di formazione prende i toni leggeri e malinconici di un teen movie sentimentale, per poi deviare nell’action che conduce a un regolamento di conti finale che per far quadrare i conti deve riprendere alcune scene addietro.

L’ultimo film di Salvatores si rivela confuso nei temi e nello stile. Se si vuole considerare il bicchiere mezzo pieno si può dire che il regista ha voluto spiazzare lo spettatore, saltando da un registro all’altro, senza soffermarsi però adeguatamente su nessuno. Ed è un peccato, perché le varie parti che compongono il film sono ben girate, ma appaiono mal amalgamate. Convincente è la caricata, violenta parte iniziale con Malkovitch mattatore che poi scompare e lascia spazio al protagonista, Kolima, che coinvolge con le sue avventure adolescenziali nell’estremo e freddissimo Nord-Est. Azzeccati i giovani interpreti (tutti sconosciuti e di origini lituana a parte l’inglese Eleonor Tomlinson, appena vista anche ne Il Cacciatore di giganti) e ben caratterizzati i loro personaggi. Più debole il finale, anticipato con tanti flash forward ma alla fine sbrigato frettolosamente.

La trasposizione dell’omonimo romanzo Nicolai Lilin è interessante per stile e per temi, e conferma due cose di Salvatores che sapevamo già: è un regista di respiro internazionale dotato di talento e stile, ma recentemente le sue opere non lasciano il segno.

VOTO: 6,5

sabato 1 giugno 2013

Tra splendore e squallore, ecco la Roma di Sorrentino

LA GRANDE BELLEZZA
di Paolo Sorrentino
Italia/Francia, 2013
con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Serena Grandi, Iaia Forte, Giusi Merlo, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti.
 
Se ti piace guarda anche: Roma, La Dolce Vita, Reality, Il fantasma della libertà
È il secondo film dell’anno in cui Toni Servillo offre un’interpretazione gigantesca e soprattutto il secondo grande film italiano di una stagione che potrebbe risultare molto più interessante di quanto ci si potesse auspicare sei mesi fa.

Sorrentino nelle interviste prende le distanze dal facile accostamento con Fellini, eppure non si può non pensare a La Dolce Vita o a Roma, entrambi ritratti empatici e allo stesso tempo impietosi di una città magnifica e decadente, abitata da personaggi immobili e grotteschi che sembrano imitare le statue di cui è costellata la città.
Entrambi i registi sono interessati alla mondanità che si annida come muffa nella città immortale, ai giornalisti e scrittori falliti, aspiranti attricette e spogliarelliste. Entrambi sono attirati dal grottesco e dal surreale. Entrambi scrutano impietosi il fenomeno della fede: qui la “santa”, ne La Dolce vita l’apparizione della Madonna, entrambi inseriscono animali inconsueti: la giraffa, i fenicotteri (uno dei due era sacrificabile) sono il corrispettivo del pesce-luna felliniano. E non si concludono forse entrambi guardando alla luna?

Ma non è un confronto tra i due che voglio compiere: semplicemente, ritengo incomprensibile negare alcun legame tra Sorrentino e Fellini.

La grande bellezza è La Dolce vita d’oggi, ma non sono sicuro che tutti se ne accorgeranno. Meglio vedersi il sesto episodio di Fast & Furious, o il terzo di Iron Man o il terzo di Una notte da leoni: quelli sì che di sicuro rimarranno nella storia dei botteghini.
Ai tempi di Fellini ci si ricordava dello spogliarello di Nanà o di uno strano pesce arenato sul litorale a distanza di anni. I passaparola avevano il potere di amplificare e fissare nella memoria. Oggi i media amplificano fino allo sfinimento il susseguirsi di scandali e tragedie che esauriscono la loro portata in qualche giorno: e scandali politici e drammi che sembrano insormontabili, si dimenticano in fretta in fondo.
Che effetto ci fa oggi vedere la nave della Concordia ancora arenata di fronte del Giglio? Forse nessuno, in fondo non è più di moda. O forse è qualcosa talmente forte per cui non bastano e non servono le parole. E Sorrentino lo sa. Lo sa che questo paese è talmente folle e surreale che la realtà supera purtroppo sempre la fantasia.
 
Con questo film la cui trama è stata tenuta fino all’ultimo segreta, il regista si conferma il più ambizioso dei registi italiani: aggettivo che per alcuni fa anche rima con presuntuoso, ma senza una buona dose di faccia tosta, senza un’ambizione che poggia sulla sicurezza dei propri mezzi, un paese, un’industria, un’arte, un’opera non può andare avanti. Occorre pensare in grande. E Sorrentino lo fa: lo faceva con la sua biografia di Andreotti, col suo film internazionale e lo fa ancora, misurandosi col fantasma di Fellini e con la città fantasma di Roma, che unisce morte, vita e immortalità. Il suo è un film esagerato, in tutto: nel numero di scene, nei personaggi, negli scorci, nelle volgarità di ogni tipo esposte in modo quasi compiaciuto.
È un film spiazzante e sprezzante, che si scaglia contro tutti anche se tutti assolve. È perfino misogino, blasfemo, politicamente scorretto. Per questo destinato ad essere acclamato o stroncato, ma non a lasciare indifferenti. È quello che l’arte deve fare, cogliere la realtà e restituircela nel suo splendore o nel suo squallore, suscitando forti prese di posizione.

È questa la grande bellezza di Roma, lo splendore di una cornice in cui vive il più grande squallore, come in ogni metropolitana, ma in nessuna si sente il peso del divino, della storia e della bellezza passata come nella nostra capitale.

È il secondo film della stagione in cui compare il romanzo Viaggio alla termine della notte di Céline (l’altro era Nella casa di Ozon).
 
VOTO: 8+